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#dietrolospettacolo: Tra nuove pesti e pandemie - Conversazione impossibile con Antonin Artaud (No1)

Aggiornamento: 30 mag 2020




Nel 1938, in un’epoca apparentemente distante ma carica d’analogie con il presente, Antonin Artaud pubblica Il teatro e il suo doppio, un vero e proprio manifesto di ricerca che racchiude gli studi, le suggestioni, le idee e le visioni alla base del Teatro della Crudeltà. Non si tratta di un testo per attori: gli attori, così come siamo abituati a conoscerli, non c’entrano assolutamente nulla. Si tratta piuttosto di una guida per chi intende fare del teatro un’azione irreversibile che abbia conseguenze chiare e incisive sulla realtà della vita umana. Consigliando caldamente questa lettura a chiunque fosse rimasto colpito dall’affermazione precedente, ne proponiamo di seguito alcuni estratti commentati, nella convinzione ch’essi costituiscano un’ottima lente per mettere a fuoco il presente e – forse ancor di più – il prossimo futuro.


«[…] Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo tra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita, e che è fatta per dettare legge alla vita.»


In questi nostri tempi d’incertezza e di pandemia, si ha un gran dire a proposito della cultura, di un settore in crisi, di teatri/attori/opere da salvare. Nel 1938 il mondo aveva già visto di recente una guerra mondiale, una gravissima pandemia più feroce dell’attuale (febbre Spagnola, 1918-20) e si accingeva a precipitare in un conflitto assai più carico d’orrori rispetto al precedente. In questo vortice d’incubo, violenza e incertezza si tenta di restaurare una “cultura” che non ha più alcuna attinenza con le urgenze, le necessità di un mondo in traumatica rivoluzione, che anzi costituisce un’accozzaglia di modelli attempati, corrispondenti a sistemi che sono già precipitati o hanno le fondamenta ormai ridotte a melma.


«Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura. La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza vitale sia pari a quella della fame.»


Anche il nostro mondo ha “fame”: ha urgenze estremamente fisiche e basilari a cui deve far fronte. Già prima di questa emergenza sanitaria globale il settore della cultura – certamente in Italia – era in piena agonia e quasi del tutto distaccato dal reale, autoreferenziale, disabitato dal vero pubblico. È questa, la cultura che si vuole salvare? O è piuttosto necessario proteggere ed esaltare quelle idee, quelle iniziative, quei luoghi e quei progetti che tramite la cultura rispondono ai bisogni e alle mancanze reali della società? La fame ha una forza capace di smuovere le montagne: l’unica cultura da difendere è quella che possiede questa forza vitale.


«Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere (e che qualcosa ci fa vivere). Ciò che proviene dal fondo misterioso di noi stessi non deve continuamente riversarsi su di noi in un travaglio volgarmente digestivo. Voglio dire che se è essenziale per noi tutti mangiare subito, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell’unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice atto di avere fame.»


Il settore culturale è da salvare, siamo tutti d’accordo. Ma è con le distribuzioni di viveri agli attori scritturati dagli Stabili che si salverà, o piuttosto riconquistando il ruolo cardine che è necessario ricopra all’interno della società? Per come è conciato attualmente, non potrebbe assolutamente ricoprire questo ruolo: serve fare chiarezza, serve aderenza con la realtà della vita.


«Se il segno dei tempi è la confusione, vedo alla base di tale confusione una frattura fra le cose e le parole, le idee, i segni che le rappresentano. […]Bisogna insistere su questa idea di cultura in azione, che diventa in noi come un organo nuovo, una sorta di respiro secondo: e la civiltà è cultura applicata, capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, è spirito presente nelle cose; ed è puro artificio separare la civiltà dalla cultura, e usare due parole diverse per indicare una sola e identica azione.»


L’urgenza è il fondamento dell’azione. Il settore culturale deve essere – ricordando, stupendo, educando ma anche provocando, spiazzando e scandalizzando – guida e coscienza della società, incitando quest’ultima al superamento delle proprie mancanze. In questo senso cultura e civiltà non possono essere disgiunte.


«Un uomo è considerato civile in base al suo comportamento, ed egli pensa come si comporta; ma persino la parola “civile” si presta a confusione; nel giudizio generale è civile e colto l’uomo al corrente dei sistemi, l’uomo che pensa per sistemi, forme, segni e rappresentazioni. È un mostro, in cui si è sviluppata sino all’assurdo la facoltà di trarre pensieri dai nostri atti, anziché quella di identificare gli atti con i pensieri. Se la nostra vita manca di zolfo, cioè di una costante magia, è perché ci compiacciamo di contemplare le nostre azioni e di perderci in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni, anziché lasciarci condurre da esse.[…] lungi dal ritenere il soprannaturale e il divino un’invenzione dell’uomo, io penso che l’intervento millenario dell’uomo ha finito per corrompere il divino.»


E, oggi più di allora, in un’epoca in cui anche politica, economia e tecnica perdono sempre più l’attinenza alla vita, è imperativo che il tentativo di ricostruire una civiltà abbia come base l’attenzione a ciò di cui i nostri spiriti e i nostri stomaci hanno realmente bisogno. Può sembrare un controsenso, ma è occupandoci di questo benessere psicofisico della società che ritroveremo anche la magia, lo stupore, l’ispirazione. Ciò che oggi è indicato come “pratico e realista” spesso non ha assolutamente nulla di reale, dunque di vitale (tantomeno di magico): perciò la banalità di cui siamo sommersi ci soddisfa e ci attrae sempre meno, e rincorriamo spasmodicamente stimoli più estremi e più forti, in grado di farci sentire ancora vivi:


«Tutte le nostre idee sulla vita devono essere riesaminate, in un’epoca in cui niente aderisce più alla vita. È questa penosa scissione a provocare la vendetta delle cose: la poesia che non è più in noi e che non riusciamo più a ritrovare nelle cose, torna a scaturire d’un tratto dalla parte sbagliata; mai in precedenza si erano visti tanti delitti, la cui gratuita bizzarria può essere spiegata soltanto con la nostra incapacità a possedere la vita. Se il fine del teatro è offrire uno sbocco ai nostri sentimenti repressi, una sorta d’atroce poesia si esprime in atti bizzarri che, pur alterando la realtà della vita, dimostrano che la sua intensità è intatta e che sarebbe sufficiente dirigerla meglio. Ma anche se a gran voce invochiamo la magia abbiamo in fondo paura di una vita che si svolga davvero sotto il suo segno autentico.[…]»


I sentimenti nascono dalle necessità; reprimerli – come dimostrano le nevrosi – non è possibile: è imperativo avere a che fare con loro, tenerli in considerazione e dirigerli come una compagnia d’attori o danzatori, o come i colori su una tela, rendendoli al contempo espressi e virtuosi. La cultura, costringendoci a rilevarli, ci può insegnare a comunicare con questi “spettri delle urgenze”, perché non prendano il sopravvento “dalla parte sbagliata”.


«Ciò premesso, si può incominciare a delineare un’idea di cultura, idea che è anzitutto una protesta. Protesta contro l’insensato impoverimento imposto al concetto di cultura col ridurla a una sorta di inverosimile Pantheon; il che provoca un’idolatria della cultura, nel senso in cui le religioni idolatre racchiudono nei Pantheon i loro dèi. Protesta contro la cultura come concetto a se stante, quasi che esistesse la cultura da un lato e la vita dall’altro; come se l’autentica cultura non fosse un mezzo raffinato per comprendere ed esercitare la vita. Si può incendiare la biblioteca di Alessandria. Al di sopra e al di fuori dei papiri esistono delle forze; potremo temporaneamente perdere la facoltà di ritrovare queste forze, ma nulla riuscirà a spegnere la loro energia. È bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dallo spazio e dal tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva, riapparirà con accresciuto vigore. È dunque giusto che ogni tanto avvengano cataclismi per incitarci a tornare alla natura, o, in altre parole, a ritrovare la vita.»


D’accordo: solo un pazzo o un hippie maledetto penserebbe di poter realmente far attecchire un pensiero del genere in un mondo in cui anche la cultura, per sopravvivere (badate bene: non per resistere ed evolvere, ma per sopravvivere) , ha dovuto tradursi in mercato. Questo perché né il pazzo né tantomeno l’hippie maledetto ragionano con le logiche del Capitalismo; un mostro, quest’ultimo, che da più di un secolo ha le gambe in cancrena e – sempre più obeso – continua a pretendere di trascinarsi sui logori gomiti… di qualcun altro.L’arte che mira a vendere può morire con esso. La forma creata per stupire senza lasciare traccia può dissolversi nell’acido degli stabilimenti chimici. Ma non perché sia ideologicamente abominevole: perché al pubblico non interessa! E infatti il pubblico vero, quello che ha un disperato bisogno di distrarsi, sentirsi vivo, esaltarsi e – in qualche caso – evolvere, non spende più in cultura, ricerca altrove le risposte alle proprie urgenze.L’arte creata per vendere venderà sempre meno.Il marketing della cultura è, per sua stessa essenza, un controsenso.


«[…] Ciò che ci ha fatto perdere il senso della cultura è la nostra idea occidentale dell’arte, e il beneficio che ne ricaviamo. Arte e cultura non possono andare d’accordo, contrariamente a quanto in genere si pretende! La vera cultura agisce attraverso l’esaltazione e la forza, mentre l’ideale estetico europeo tende a gettare lo spirito in uno stato di separazione dalla forza e farlo assistere alla propria esaltazione. È un concetto pigro, inutile e tale da generare a breve scadenza la morte. […]Ai nostri concetti estetici e disinteressati, una cultura autentica contrappone una nozione magica e violentemente egoistica, vale a dire interessata. […] i messicani captano i Manas, le forze latenti in ogni forma, che non possono essere liberate dalla contemplazione delle forme in quanto tali ma solo da una identificazione magica con queste forme. […]»


In altre – becere – parole: piantiamola anche con l’onanismo culturale. Ci si concentri su un’arte finalizzata a collegarci con il nostro sentire profondo, a esprimere le urgenze, a far capire allo spettatore che ciò di cui soffre è certamente sofferto anche da altri, incitando a far fronte comune. Oppure veramente liberatoria, potente valvola di sfogo, carnevale violento e rivoluzionario: non una catarsi in lattina ma un’overdose di meraviglia, che mettendo in comunicazione vera con la realtà della vita sappia dare gli strumenti per affrontare il mondo, ogni giorno. Questa cultura può di certo superare i cataclismi. Gli spaccini d’arte tagliata male invece no.


«È difficile, quando tutto ci induce a dormire guardando con occhi fissi e coscienti, svegliarci e guardare come in un sogno, con occhi che non conoscono più la loro funzione e il cui sguardo è rivolto verso l’interno. È così che si fa spazio la strana idea di un’azione disinteressata, ma comunque azione, tanto più violenta quanto più lambita dalla tentazione del riposo.Ogni autentica effige ha un’ombra che costituisce il suo “doppio”; e l’arte cessa d’aver importanza nell’istante in cui lo scultore, nel modellare, pensa di aver liberato una sorta d’ombra la cui esistenza strazierà il suo riposo.»


Sono queste stesse ombre gli spettri di cui parlavamo che – se non ascoltati, considerati e affrontati – torneranno a sfogarsi con violenza, perché non è possibile ch’essi rimangano inespressi.


«Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre; e, fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. Si può anzi dire che esse sin dall’origine non abbiano tollerato limiti. Il nostro concetto pietrificato del teatro riallaccia alla nozione pietrificata di una cultura senza ombre, in cui il nostro spirito, da qualunque parte si volga, incontra soltanto il vuoto, quando invece lo spazio è pieno. Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si avvale di strumenti vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare. L’attore, che non ripete mai due volte lo stesso gesto ma compie gesti, si muove e innegabilmente violenta le forme, al di là di queste forme e attraverso la loro distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione…»


…nel senso di prosecuzione, superamento, evoluzione.


«Il teatro, che non consiste in nulla ma che si serve di tutti i linguaggi – gesti, suoni, parole, luce, grida –, nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio. Ma il fissarsi del teatro su un tipo di linguaggio (parole scritte, musica, luci, suoni…) segna a breve scadenza la sua rovina, giacché la scelta d’un linguaggio indica una propensione verso i vantaggi che tale linguaggio offre; e l’inaridimento del linguaggio va di pari passo con la sua limitazione. Per il teatro come per la cultura, ciò che conta è dare un nome alle ombre e guidarle; il teatro, che non si immobilizza nel linguaggio e nelle forme, non soltanto distrugge le false ombre ma apre la via a un’altra nascita d’ombre, intorno alla quale si raccoglie l’autentico spettacolo della vita.Spezzare il linguaggio per raggiungere la vita, significa fare o rifare il teatro; ciò che importa non è credere che questo atto debba rimanere sacro, vale a dire riservato a pochi, bensì credere che non tutti possono compierlo, in quanto esso esige una preparazione. […]»


Come per ogni rituale o funzione istituzionale, il teatro – e la cultura – necessita di esecutori educati allo scopo, dotati di sensibilità verso quelle ombre che devono essere da loro rilevate e poi palesate al pubblico, perché anche quest’ultimo possa riconoscerle ed esprimerle.


E dunque: se il mondo ha fame, non bisogna solo dargli del pane. Ma conoscere lo spettro di quella fame, sapere da cosa è stato generato e misurare la forza di cui è dotato, sfruttandola per compiere le azioni necessarie a sfamarsi anche dopodomani, mangiando pure meglio e impiattando come grandi chef. Forse in questo modo il consumare la pietanza ci procurerà un piacere così elevato da trasferire la sua forza ad altre lotte e altri bisogni, come la necessità di avere un tetto, dei vestiti, un giardino…


La cultura che dovremmo salvare è quella capace di indicarci la via verso il benessere. La cultura che dovremmo salvare mette in crisi le costruzioni della società. Non distrae né cura i sintomi: salva la vita.


«[…] quando pronunciamo la parola “vita”, dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile dalle forme. La cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca è l’attardarsi sulle forme artistiche, anziché sentirsi come condannati sul rogo che tentano di far segni attraverso le fiamme.»



Davide Simonetti

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